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Quei giorni in cui essere catanzaresi è la sola cosa che conta

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Quei giorni in cui essere catanzaresi è la sola cosa che conta

Di Matteo Molica

Foto: Area Comunicazione US Catanzaro

Siamo un popolo capace di esprimere un orgoglio identitario immarcescibile e abile a trasformare un evento sportivo in una sintomatica rivalsa emozionale e sociale. Siamo semplicemente catanzaresi, un popolo amaramente dislocato in tutti i meandri dello stivale a causa delle drammatiche crisi e povertà economiche ed occupazionali esistenti, ma che riesce sempre a convergere in maniera straordinaria ed unitaria laddove la propria squadra di calcio scende in campo; una squadra che non rappresenta soltanto undici giocatori che rincorrono un pallone, ma una atavica e vetusta fede calpestata ed umiliata troppe volte, ma sempre pronta a dimostrare, in ogni tempo e spazio, la propria incommensurabile vanagloria. Il Marassi di Genova è un palcoscenico pregno di storia e blasone, uno stadio che evoca e rievoca importante tradizione calcistica e che ospita tifoserie che si approcciano allo sport con una forte attitudine valoriale in perfetto stile inglese. Nonostante sia uno stadio collaudato per la massima serie, la vendita dei biglietti per il settore ospiti, iniziata più di venti giorni prima dell’evento, termina appena due ore dopo l’apertura della prevendita; 2067 cuori pulsanti gremiscono in ogni ordine di posti il settore ospiti; tutto ciò non basta a placare l’irrefrenabile ed amorevole tenacia del popolo giallorosso e dal settore è possibile intravedere vessilli giallorossi sia nella vicina gradinata nord, sia nell’antistante tribuna, per un totale di circa 2500 anime catanzaresi. Il pre-partita ha sicuramente il sapore emozionale più forte ed intenso per due ragioni più di tutte. Rivedere e riabbracciare dopo tanti anni giovani ed anziani che risiedono in molte città del nord costretti a stare lontani dalla loro amata terra e dai loro cari è una emozione che farebbe vacillare anche le anime dei più aridi di sentimenti. I loro sorrisi sottendono una felicità inconscia in quanto una semplice partita di pallone gli permette in realtà di vivere la propria città in mezzo alla propria gente anche se a più di mille chilometri di distanza e gli consente di ostentare il loro spiccato senso di orgoglio che prende perfettamente forma in un sublime contesto di unità di intenti, di voci e di profondi valori di amore e sacrificio per la terra natia. Il secondo motivo per cui emozionarsi è la straordinaria accoglienza del popolo doriano: appena giunti nella parte antistante all’accesso al nostro settore, gruppi di persone di chiara fede sampdoriana ci accolgono con attestati disinteressati di stima, ci esprimono la loro plateale contentezza per il nostro ritorno nelle serie che contano, ci offrono birre, si prestano con le loro autovetture ad andare a prendere i nostri tifosi che hanno lasciato i propri mezzi di trasporto nel lontano parcheggio riservato agli ospiti. L’emozione è tangibile perché nessuno di loro ci percepisce in quel momento come avversari sugli spalti e sul campo, nessuno di loro accenna un lamento su uno dei loro peggiori momenti calcistici di sempre, ognuno di loro ci esprime senso di vicinanza sincera al cospetto dei troppi anni di piombo vissuti in terza serie e senso di ammirazione, come se già preventivassero lo spettacolo che da lì a poco avremmo dato luogo all’interno dello stadio. Entriamo all’interno dello stadio ed il colpo d’occhio è meraviglioso; i cristallini, soprattutto dei più giovani, non sono abituati a mettere a fuoco immagini di tale caratura estetica e la gradinata sud è un tripudio di bandiere blucerchiate che si lasciano contemplare da un senso di totale ammirazione. Inizia la partita ed il tenore del nostro tifo diventa un uragano assordante; boati a volumi altissimi che rappresentano non solo un motivo di indissolubile sostegno alla squadra, ma una plateale celebrazione del fatto che il popolo catanzarese è tornato in tutto il suo sublime spessore, che in quel momento il Catanzaro è la sola cosa che conta e che più di 2000 voci sono la magistrale espressione di un campanilismo viscerale che non conosce avversità. I minuti scorrono, il Catanzaro pareggia immediatamente dopo essere passato in svantaggio ed addirittura raddoppia dopo una perfetta manovra di gioco partita dal basso e culminata in un tap-in finale a porta sguarnita. Ma l’aspetto meramente tecnico della partita interessa a pochi, l’unica cosa che conta è godersi ogni millisecondo della giornata, è perdere anche il più tenue filo di voce per sostenere la squadra, è incrociare gli sguardi felici ed increduli dei propri amici al fianco, è acquisire consapevolezza del fatto che in quel momento stai vivendo insieme a loro l’ennesimo paragrafo di storia che solo un popolo come il nostro è capace di scrivere. Il triplice fischio finale è un altro turbinio di emozioni. La gioia per aver espugnato un campo difficile contro una squadra di tale blasone non è seconda alla sensazione di estremo benessere provato scrutando l’intero pubblico di Marassi che applaude convintamente verso il nostro settore tributandoci tutta la sua incontrovertibile stima. Alla felicità però si accosta un paradossale senso di amarezza; giornate così vorresti non finissero mai perché ti permettono di assaporare quella ragione di appartenenza identitaria ad una città ed un popolo che comunemente non vivi, ti consentono di esternare quel senso di rivalsa tenuto da parte per troppi anni, ma mai leso (quel coro al Ceravolo sullo 0-5 per il Parma che ha fatto tremare la città ne è la prova provata),  ti danno la consapevolezza che le troppe lacrime versate in ragione di sconfitte ed amarezze possono trasformarsi in indescrivibili momenti di felicità. 

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